Un italiano su 4 in difficoltà per inflazione e guerra

L’aumento dei prezzi che tutti noi stiamo vivendo quotidianamente è principalmente dovuto ai rincari energetici e all’inflazione. Ed è un dato di fatto che pesi sul bilancio delle famiglie italiane. Lo conferma la ricerca che Facile.it ha commissionato a mUp Research e Norstat per fotografare come i consumatori stiano affrontando l’attuale scenario economico. 

Impatto negativo per 11 milioni di italiani

Più di 1 italiano su 4, dato equivalente ad oltre 11 milioni di individui (26%), ha dichiarato che l’aumento dei prezzi in corso ormai da 3 mesi ha avuto un impatto molto negativo sul proprio bilancio familiare. Per far fronte ai rincari gli italiani hanno adottato diverse strategie; c’è chi ha ridotto, se non del tutto eliminato, alcune voci di spesa (66% dei rispondenti), mentre oltre 4,7 milioni di individui per far quadrare i conti, hanno dovuto lasciare indietro alcune spese comunque scadute come, ad esempio, le bollette di luce e gas o le rate del condominio. Ci sono anche delle differenze a livello territoriale: ad esempio, dai dati raccolti, l’aumento dei prezzi sembra aver colpito più duramente i rispondenti residenti nel Centro Italia (31%) e coloro con età compresa tra i 25-34 anni e i 45-54 anni (31%).

Le aree in cui si punta a risparmiare

L’aumento del costo delle materie prime ha avuto un forte impatto sul carrello della spesa e questo ha spinto molti consumatori a cambiare le proprie abitudini d’acquisto o alimentari. Secondo l’indagine, molti hanno affrontato i rincari orientandosi su marchi più economici (41%) o cambiando punto vendita (28%). Soluzioni spesso non sufficienti tanto che, comunque, 35 milioni di consumatori hanno ridotto, se non addirittura eliminato, dalla loro tavola alcuni alimenti; non solo dolci (46%), snack (44%), alcolici (39%), ma anche alimenti come carne (43%) e pesce (30%). C’è addirittura chi ha ridotto notevolmente l’acquisto di frutta (4,5 milioni di individui), pasta (3,4 milioni) e verdura (2,9 milioni). Dalla tavola al tempo libero; più di 2 italiani su tre hanno ridotto le uscite al ristorante, mentre il 48% ha deciso di limitare i viaggi.

Auto, casa, bollette

Il caro-benzina è uno dei problemi con cui tutti gli automobilisti hanno dovuto fare i conti; per far fronte agli aumenti il 46% dei rispondenti, molto semplicemente, ha detto di aver ridotto l’uso dell’auto nel tempo libero, mentre il 47% ha cercato di risparmiare prestando maggiore attenzione nella scelta della pompa di benzina. Altra voce di spesa cresciuta notevolmente negli ultimi mesi è quella dell’energia elettrica e del gas. In questo caso gli italiani hanno cercato di far fronte agli aumenti impegnandosi nella riduzione dei consumi, ad esempio facendo più attenzione all’illuminazione domestica (61%), abbassando il riscaldamento (46%), ottimizzando l’uso degli elettrodomestici (42%) o consumando meno acqua calda (26%). Circa 10 milioni di italiani, invece, hanno cercato di risparmiare sulla bolletta luce e gas semplicemente cambiando fornitore di energia.

Grandi Dimissioni: nuove sfide per le direzioni HR

Con il graduale aumento delle assunzioni la Direzione HR è tornata a concentrarsi sui temi dell’employer branding e dell’attrazione dei talenti. Ma dopo la pandemia il mercato del lavoro è profondamente mutato. Per il 44% delle aziende la propria capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita, e nel 2021 è proprio questo l’ambito su cui le Direzioni HR hanno avuto maggiori criticità. A preoccupare le organizzazioni sono però anche le difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone già presenti al loro interno. Nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende: il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha quindi interessato anche il nostro Paese. E il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi.

In cerca di maggiori benefici economici o opportunità di carriera

Sono alcuni risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano. I numeri dei ‘dimissionari’ crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e alcuni profili (professionalità digitali). E tra chi ha cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta al momento delle dimissioni. Chi cambia lavoro lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), una maggiore salute fisica o mentale (24%), inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%).

Il malessere, questo sconosciuto alle aziende

Ma emergono anche altri elementi di malessere sul lavoro. Analizzando tre dimensioni del benessere lavorativo (fisica, sociale e psicologica), solo il 9% degli occupati dichiara di stare bene in tutte e tre. L’aspetto più critico è quello psicologico: 4 su 10 hanno avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere emotivo. Preoccupazioni che si riflettono anche sullo stato fisico, con difficoltà a riposare bene e/o insonnia (55%). Questo malessere, però, sembra quasi totalmente sconosciuto alle aziende, che solo nel 5% dei casi lo considera un aspetto problematico. A questo si accompagna una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente “ingaggiati” passano da un già basso 20% a un preoccupante 14%. E solo il 17% si sente incluso e valorizzato all’interno dell’organizzazione.

Il nuovo ruolo del Connected People Care

L’utilizzo della leva tecnologica e dei dati per la presa di decisioni è fondamentale per l’evoluzione della Direzione HR, che deve portare l’organizzazione a un modello di lavoro “sostenibile”, con al centro il benessere dei lavoratori, l’engagement e l’impiegabilità. Sono questi, infatti, gli aspetti chiave su cui deve basarsi il nuovo ruolo del Connected People Care, un approccio alla gestione del capitale umano sempre più orientato alle esigenze specifiche di ogni persona, capace di far leva sull’utilizzo di nuovi canali di relazione, e strumenti che raccolgono ed elaborano una moltitudine di dati provenienti da diverse fonti.

Il vino e i giovani: cresce il consumo, ma responsabile e di qualità

Secondo lo studio di Enpaia-Censis, dal titolo Responsabile e di qualità: il rapporto dei giovani col vino, i numeri parlano chiaro. Dal 1993 al 2020 il vino ha visto crescere la quota di giovani che lo consuma, passati dal 48,7% al 53,2%. Al contempo, i giovani che bevono più di mezzo litro al giorno è scesa dal 3,9% a meno dell’1%. Infatti, tra i giovani che consumano vino, il 70,9% lo fa raramente, il 10,4% uno o due bicchieri al giorno e il 17,3% solo stagionalmente. Insomma, il consumo di vino è una invariante delle abitudini, componente significativa della buona dieta guidata dalla ricerca della qualità e dal suo ruolo di moltiplicatore della buona relazionalità. Ma è anche un prodotto strategico per l’economia italiana, con un sensibile incremento di consumatori tra i giovani, che scelgono di bere in maniera responsabile e vedono nell’italianità il principale criterio di scelta.

“Mi piace bere vino, ma senza eccessi”

Il 79,9% dei giovani tra 18 e 34 anni afferma che nel rapporto con il vino vale la logica meglio meno, ma di qualità, e il 70,4% dichiara: “Mi piace bere vino, ma senza eccessi”.
Insomma, il vino richiama l’idea di un alimento che dà piacere e contribuisce al benessere soggettivo, non di un catalizzatore di sregolatezza. L’italianità come criterio di scelta è invece segnalata dal 79,3% dei giovani, perché percepita come garanzia di qualità. Il riferimento alle certificazioni Dop (85,9%) o Igp (85,2%) mostra poi come i giovani siano attenti al legame tra vini e territorio. Un segnale della riscoperta nella cultura del consumo giovanile della tipicità locale.

Tipicità, marchio e sostenibilità

La tipicità, proiezione anche della biodiversità del nostro territorio, è infatti una bussola nelle scelte dei giovani consumatori: il 94,9% dichiara di acquistare spesso prodotti tipici dei territori del nostro Paese. Il marchio del prodotto, invece, conta per il 36,1% dei giovani, mentre è alta la valutazione che viene data della tracciabilità dei prodotti, vino incluso. Il 92% dei giovani, riporta Italpress, è pronto a pagare qualche euro in più sul prezzo base per i prodotti di cui riescono a conoscere biografia e connotati. Il 56,8%, poi, è ben orientato verso vini biologici e apprezza aziende agricole attente alla sostenibilità ambientale.

Un parte integrante del nostro stile di vita

“Quello vitivinicolo è un settore di assoluto prestigio, molto valorizzato soprattutto dai giovani, che nelle loro scelte di consumo mostrano particolare considerazione verso il vino biologico e di qualità – commenta Giorgio Piazza, presidente della Fondazione Enpaia -. I giovani bevono vino in maniera moderata e responsabile, aprendosi così alla convivialità e alla socialità”.
Non è n caso che il vino sia al centro di momenti significativi di convivialità anche negli esercizi pubblici, “di cui gli italiani hanno avuto nostalgia nell’emergenza sanitaria – aggiunge Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis -. Un rapporto maturo e responsabile col vino, quindi, è parte integrante del nostro stile di vita, tanto apprezzato nel mondo”.

Il mondo cambia, così la business strategy dei ceo

La situazione geopolitica mondiale sta creando nuovi sconvolgimenti nella business strategy delle aziende già duramente colpite dalla pandemia. Proprio così: dopo l’emergenza sanitaria, i venti di guerra dall’Ucraina portano i loro effetti in tutto il mondo, travolgendo anche il lavoro delle imprese. Le aziende, già gravemente provate dall’impatto del Covid, hanno la necessità di riscrivere la loro business strategy.  In questo complesso contesto socio-politico, i dirigenti aziendali si trovano a dover affrontare ulteriori ostacoli e nuovi rischi che potrebbero minare la crescita aziendale e, in molti casi, devono puntare con decisione su determinati fattori. In particolare, sostenibilità, fusioni e acquisizioni sono considerate centrali per accelerare nuove strategie di sviluppo in ottica esg e aumentare il contenuto tecnologico delle aziende stesse. Sono alcune delle evidenze emerse dall’Ernst & Young CEO Outlook Survey, che ha preso in esame più di 2.000 CEO di 46 paesi e 13 diversi settori (70 dei quali in Italia).

Cosa vogliono i ceo

Lo studio fornisce le aspettative dei leader per la crescita futura e la creazione di valore a lungo termine e presenta le tendenze e gli sviluppi chiave che daranno forma alle strategie di business delle aziende italiane e internazionali. Per questo, l’83% degli amministratori delegati italiani (79% degli ceo internazionali) ha già piani operativi per trasformare le proprie supply chain. E il 53% (55% dei ceo internazionali) sta rivedendo l’intera strategia aziendale. Nelle attuali circostanze, così incerte e mutevoli, la maggior parte ceo italiani (64%) afferma che investire in tecnologia è fondamentale per ottimizzare i costi, migliorare le relazioni con gli stakeholder e perseguire un percorso di sviluppo sostenibile. In questo senso, quasi la metà degli intervistati (48%) ritiene che essere un modello di sostenibilità rappresenterà un vantaggio competitivo.

Le opzioni strategiche

Le fusioni e le acquisizioni (m&a) rimangono un’opzione strategica, soprattutto per rafforzare le strategie esg e di sostenibilità, ma con un focus particolare sui mercati nazionali o locali. Nonostante un rallentamento sia del volume degli affari che dell’attività di fusione e acquisizione nei primi mesi del 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021, il 74% delle aziende sta effettuando acquisizioni o fusioni all’interno dei propri mercati interni o regionali/locali. A livello di ceo italiani, il 44% di questi prevede che le proprie aziende effettuino acquisizioni nei prossimi 12 mesi, rispetto al 35% all’inizio del 2021. Alla domanda sulle tendenze chiave nel mercato delle fusioni e acquisizioni nel 2022, i ceo hanno affermato di aspettarsi un aumento delle acquisizioni cross-industry (63%) e un ruolo decisivo del private equity (62%).
Il focus e le risorse principali oggi sembrano essere concentrati sul business già in essere (25% degli amministratori delegati italiani) per accelerare la crescita e la creazione di valore. Investire nella trasformazione digitale è invece una priorità per il 24% (20% dei ceo internazionali), mentre lo è  lo sviluppo sostenibile per il 17% (13% delle aziende estere). Tra i principali driver della propria strategia di sostenibilità, il 24% degli imprenditori italiani afferma che essere leader nella sostenibilità porti vantaggi in termini di competitività e credibilità aziendale. 

Vacanze pasquali: c’è voglia di viaggiare, nonostante guerra, Covid e inflazione

La maggioranza degli italiani non è disposta a rinunciare alle vacanze primaverili di Pasqua, nemmeno nel 2022, ma il conflitto russo-ucraino, l’evoluzione della pandemia e l’aumento dei prezzi stanno condizionando la scelta della meta, che ancora una volta, ricade sull’Italia. Future4Tourism, la ricerca previsionale di Ipsos sulle intenzioni di vacanza degli italiani, ha monitorato i piani di viaggio dei nostri connazionali per le festività di Pasqua, considerando la pandemia da Covid-19, gli effetti della guerra Russia-Ucraina e la ripresa dell’inflazione.

Una gita fuori porta o un long week-end?

Nonostante le forti incertezze del periodo, il 44% degli italiani è intenzionato a prendersi una pausa durante il periodo pasquale, una quota del tutto simile a quella misurata per la Pasqua 2018, periodo distante dalle interferenze pandemiche e dalla guerra.
La pausa pasquale ha visto suddividersi quasi equamente coloro che hanno intenzione di concedersi una gita fuori porta (23%) e chi invece ha pensato di concedersi un long week-end, o anche periodi più lunghi con pernottamento (21%), decidendo per lo più di rimanere in Italia (circa 2 vacanzieri pasquali su 3). La quota di chi ha già effettuato una prenotazione però è molto contenuta (12%).

Quasi 7 italiani su 10 pronti a fare le valigie

Allargando le previsioni a tutto il periodo primaverile, i programmi di viaggio per i mesi di aprile, maggio e giugno vedono quasi 7 italiani su 10 pronti a fare le valigie. Nonostante la misurazione dei propositi di viaggio sia stata effettuata a conflitto russo-ucraino già iniziato, al momento non c’è intenzione di mettere un freno alla voglia di vacanza. E ancora una volta l’Italia sarà la destinazione più scelta (68%), con valori superiori al periodo pre-Covid. Ma se la scelta della destinazione subisce ancora l’impatto della pandemia, in questo momento è la guerra Russia-Ucraina ad avere un maggior influsso. Tra i viaggiatori primaverili, il 28% sostiene che la meta è influenzata molto dalla pandemia, quota che incrementa fino a un 37% di viaggiatori che sono invece influenzati dalla guerra.

Partire sì, ma attenti al budget

Oltre a pandemia e conflitto, un altro fattore sembra influire sulle decisioni degli italiani dei prossimi mesi: l’inflazione, e il conseguente aumento dei prezzi. Tra i potenziali viaggiatori primaverili 7 su 10 non sono disposti a rinunciare al viaggio, ma 5 su 10 sono consapevoli che pur viaggiando dovranno stare attenti al budget, e se necessario, fare qualche rinuncia. Tre sono in particolare le strategie per cercare di contenere i costi: evitare ponti e alta stagione, scegliere sistemazioni più economiche rispetto a quanto abituati a fare, ridurre la frequentazione di ristoranti e bar. È indubbio che gli operatori turistici stanno già guardando all’estate. E se da un lato i dati sono rassicuranti (a inizio marzo il 58% prevede di fare le vacanze estive 2022 tra luglio e settembre, il dato più alto registrato dal 2018), dall’altro si riduce la quota di coloro che hanno già prenotato.

Quanto ci mette un hacker a scoprire una password?

Anche zero. Può essere addirittura questo il tempo impiegato da un hacker “medio” per decriptare una password e violare un account. Il rischio è concreto a maggior ragione se la password non è sicura, ovvero breve e, ad esempio, composta da soli numeri. E’ un report di Hive Systems, società di cyber-security, a mettere in guardia gli utenti più distratti o fiduciosi, specificando che il rischio concreto di farsi soffiare i propri dati o peggio le proprie credenziali bancarie è molto concreto.

Le combinazioni troppo facili

L’utilizzo di soli numeri, ad esempio, potrebbe consentire a un cybercriminale di scoprire istantaneamente la password, a maggior ragione se è composta da 4-11 caratteri. Usare solo lettere minuscole, invece, vuol dire fornire i propri dati direttamente agli hacker. Infatti, le password da quattro a otto caratteri, che sono solo minuscole, possono essere decifrate istantaneamente. Secondo il report, una password composta da nove lettere minuscole può essere scoperta in 10 secondi. Se la password richiede 10 caratteri, quel tempo si espande a 4 minuti. Una password di 11 caratteri, che utilizza nient’altro che lettere minuscole, può essere calcolata in due ore. Gli hacker, infatti, sono diventati non solo più bravi e di conseguenza pericoli, ma anche infinitamente più rapidi nel rubare credenziali e dati.

Quale mix è preferibile?

Utilizzando un mix di lettere minuscole e maiuscole, le password da quattro a sei caratteri possono essere decifrate istantaneamente. Le password composte da sette caratteri richiedono solo due secondi per essere scoperte, mentre le password con otto, nove e dieci caratteri che utilizzano lettere minuscole e maiuscole possono essere individuate rispettivamente in due minuti, un’ora e tre giorni. Una password di 11 caratteri che utilizza lettere maiuscole e minuscole può tenere a bada un hacker per un massimo di cinque mesi. Anche mescolando lettere minuscole e maiuscole insieme a numeri, l’utilizzo di una password composta da soli quattro o sei caratteri non è affatto sicuro. E aggiungendo simboli al mix, anche una password di sei lettere potrebbe essere decifrata all’istante. In poche parole, le password devono essere lunghe e l’aggiunta di una lettera in più può fare un’enorme differenza nel mantenere i dati personali al sicuro. Se si utilizzano lettere minuscole e maiuscole, numeri e simboli, una password di dieci lettere potrebbe essere risolta in cinque mesi. Usando le stesse lettere, numeri e simboli, una password di 11 caratteri impiegherebbe fino a 34 anni per essere decifrata.

La password perfetta

Per mettersi al riparo da brutte sorprese, Hive suggerisce che una password dovrebbe contenere almeno 8 caratteri, utilizzando un mix di numeri, lettere maiuscole, lettere minuscole e simboli. Una password di 18 caratteri che utilizza il suddetto mix richiederebbe da un hacker medio fino a 438 trilioni di anni per essere decifrata.

Boom agricoltura 4.0: in Italia è un mercato da 1,6 miliardi

In Italia negli ultimi due anni il mercato dell’agricoltura 4.0 è letteralmente esploso. Dai 540 milioni di euro di fatturato del primo semestre del 2020 il mercato italiano dell’agricoltura 4.0 è passato infatti a 1,3 miliardi alla fine dell’anno, per arrivare alla cifra di 1,6 miliardi nel 2021, con una crescita del +23%. In parallelo è cresciuta anche la superficie coltivata con strumenti di agricoltura 4.0 da parte delle aziende agricole, che nel 2021 ha toccato il 6% del totale, il doppio dell’anno precedente.
Inoltre, nell’ultimo anno il 60% degli agricoltori italiani utilizza almeno una soluzione di agricoltura 4.0, il +4% rispetto al 2020, e oltre quattro su dieci agricoltori ne utilizzano almeno due, in particolare, software gestionali e sistemi di monitoraggio e controllo delle macchine. 

A spingere la crescita sono gli incentivi statali

È quanto emerge dalla ricerca dell’Osservatorio Smart Agrifood della School of Management del Politecnico di Milano e del Laboratorio Rise (Research & Innovation for Smart Enterprises) dell’Università degli Studi di Brescia.
A spingere la crescita del mercato sono gli incentivi statali, in particolare le agevolazioni dei programmi di sviluppo rurale e il piano transizione 4.0. Infatti, tre quarti delle aziende agricole italiane hanno impiegato almeno un incentivo di agricoltura 4.0, e l’84% sostiene che abbiano avuto un impatto determinante sulle scelte di investimento.

Tracciabilità, un ambito che interessa consumatori e aziende

Dal lato consumatori, secondo l’indagine, metà degli italiani cerca informazioni sulla tracciabilità degli alimenti, utilizzando soprattutto il sito internet del produttore, i social network e i Qr Code. Ed è proprio la tracciabilità uno degli ambiti in cui le aziende stanno maggiormente utilizzando il digitale. Il settore continua infatti a guardare con forte interesse alle tecnologie Blockchain & Distributed Ledger, anche se solo il 6% dei consumatori italiani ha già sentito parlare di Blockchain nell’agrifood, riferisce Ansa.

L’innovazione, per ora, passa soprattutto dall’hardware

La crescita del mercato è guidata principalmente dalla spesa per i macchinari connessi, pari al 47% del mercato, e per i sistemi di monitoraggio e controllo di mezzi e attrezzature, che corrispondono al 35% dell’intero mercato, e a distanza dai software gestionali (6%) riporta AgroNotizie. Al 5% i sistemi di monitoraggio da remoto delle coltivazioni, e poi i Dss, la mappatura di terreni e altro ancora. Dati che confermano come l’innovazione, per ora, passi soprattutto dall’hardware, ovvero trattori e attrezzature smart. Se si guarda invece alle tecnologie abilitanti i dati e l’analisi degli stessi è al primo posto (71%), seguiti dalle piattaforme software (59%), l’Iot (58%), i device di ultima generazione (46%), mobility e geolocalizzazione (36%), veicoli e attrezzature connessi (25%), sistemi Ict in cloud (20%) e l’Iintelligenza artificiale (10%)-

L’Italia è seconda in Europa per le accise sulla benzina

Se ne sono accorti tutti gli automobilisti italiani: tra l’impennata dei prezzi delle materie prime come conseguenza indiretta della pandemia da Covid-19 e le recenti tensioni in Ucraina i costi del carburante stanno lievitando. La benzina ha infatti superato i 2 euro al litro, e secondo i calcoli di Facile.it sui dati dell’European Environment Energy, nel corso del 2022 arriveremo a spendere oltre 1.750 euro all’anno per fare il pieno a un’auto alimentata a benzina. Per scongiurare questa onerosa eventualità, fra le ipotesi di intervento proposte da vari Governi nel corso degli anni, e caldeggiate da molti consumatori, c’è il taglio delle accise. Ma quanto incidono effettivamente le ‘tasse’ sul carburante in Italia e negli altri Paesi europei?

Per ogni litro di benzina si versano 0,73 euro di tasse 

Secondo Facile.it, si escludono i Paesi Bassi, dove le accise sono pari a 0,79 euro al litro, è il nostro Paese a vantare le accise sulla benzina più alte d’Europa: si tratta infatti di 0,73 euro per ogni litro di benzina erogato. Di fatto in Italia le accise contribuiscono a poco meno della metà del prezzo finale della benzina, e se a queste si aggiunge l’Iva, si arriva a oltre la metà del costo riportato alle pompe dai benzinai. Dopo l’Italia, la classifica dei Paesi europei con le accise sulla benzina più alte d’Europa prosegue con la Finlandia e la Grecia a parimerito, dove pesano per 0,70 euro ogni litro, mentre appena fuori dalla top five si piazzano la Francia, con 0,68 euro al litro, e la Germania, con 0,65 euro al litro.

Siamo al primo posto per le accise sul diesel: 0,62 euro per ogni litro

Per quanto riguarda il diesel, invece, il nostro Paese è quello con le accise più alte. Si tratta infatti di 0,62 euro per ogni litro di carburante. Sul secondo e sul terzo gradino del podio si trovano rispettivamente il Belgio, con 0,60 euro di accise al litro, e la Francia, con 0,59 euro.

In Bulgaria le accise sono circa la metà di quanto rilevato in Italia

Al contrario, riferisce Adnkronos, sia per quanto riguarda la benzina sia per il diesel, è la Bulgaria il paese che detiene il primato dello Stato con le accise più basse di tutta Europa. In Bulgaria infatti si spendono rispettivamente 0,36 euro e 0,33 per ogni litro, circa la metà di quanto rilevato in Italia da Facile.it.

Colloquio di lavoro, la valutazione di hard e soft skills

Nell’ambito della ricerca del personale saper valutare le competenze di un candidato è una dote fondamentale. Tuttavia si cade spesso nell’errore di valutare le competenze come strettamente legate all’intelligenza delle persone. In realtà, secondo lo psicologo statunitense McClelland, le capacità umane, che siano hard o soft, nascono da “schemi cognitivi e comportamentali operativi casualmente collegati al successo nel lavoro”.  Nel settore della ricerca del personale l il tema delle competenze e di come individuarle e valutarle è molto dibattuto, soprattutto quando si parla di figure tecniche o altamente specializzate.

Come fare quindi a orientarsi in questo oceano? Per quanto riguarda le hard skills una soluzione interessante è quella adottata da Reverse, società di headhunting attiva a livello internazionale, che ha introdotto il cosiddetto Recruiting Collaborativo. All’interno di questo modello, l’head hunter viene affiancato da una figura specializzata, dello stesso settore del persona ricercata ma con una seniority maggiore, in grado quindi di guidare un’intervista al fine di esaminare e valutare le competenze hard del candidato.

Le caratteristiche più richieste

In primo luogo è importante cercare persone abili nel confrontarsi con tutte le cariche aziendali. Può sembrare banale ma, soprattutto in un momento in cui i rapporti umani sul luogo di lavoro sono sempre più mediati dalla tecnologia, è essenziale saper comunicare al meglio, esprimere un’opinione in modo chiaro e avere una spiccata capacità di ascolto, scrittura e negoziazione.

Le modalità di lavoro fluide hanno presentato la necessità di individuare anche un’altra soft skill: essere capaci di lavorare in team, anche da remoto. Per gli esperti di ricerca del personale è quindi essenziale ricercare onestà, trasparenza, senso del dovere e doti di leadership.

Sapersi adattare ai cambiamenti

Proseguiamo con la capacità di adattarsi ai cambiamenti, considerandoli come parte integrante della routine lavorativa e non come qualcosa da evitare a tutti i costi. Questo aspetto, oltre a considerare il contesto aziendale come mutevole, si riflette anche sui singoli progetti, dove il singolo è chiamato a individuare le criticità rispondendo in modo proattivo con soluzioni alternative. Parliamo quindi di apertura mentale, pensiero laterale e di un’attitudine a captare stimoli provenienti dai settori più disparati, facendoli propri e traducendoli in idee innovative.

Nel 2021 il mercato cybersecurity in Italia raggiunge 1,55 miliardi

È un vero e proprio boom per il mercato della cybersecurity, che in Italia nel 2021 raggiunge un valore di 1,55 miliardi di euro, il 13% in più rispetto al 2020.
Un ritmo di crescita mai così elevato, con il 60% delle grandi organizzazioni che prevede un aumento del budget destinato alle attività di sicurezza informatica. 
Secondo i risultati della ricerca dell’Osservatorio Cybersecurity & Data Protection della School of Management del Politecnico di Milano, il rapporto tra spesa in cybersecurity e Pil resta però limitato (0,08%), e all’ultimo posto tra i Paesi del G7, ma l’Italia insieme al Giappone è l’unica nazione a non aver registrato una diminuzione nel corso dell’ultimo anno. In ogni caso, il mercato italiano di cybersecurity è composto per il 52% da soluzioni come Vulnerability Management e Penetration Testing, SIEM, Identity and Access Management, Intrusion Detection, Data Loss Prevention, Risk and Compliance Management e Threat Intelligence, e per il 48% da servizi professionali e servizi gestiti.

Il 31% della spesa è dedicata a Network & Wireless Security 

Gli aspetti di security più tradizionali continuano a coprire le quote maggiori del mercato, con il 31% della spesa dedicata a Network & Wireless Security, ma gli aumenti più significativi riguardano Endpoint Security e Cloud Security. Con le nuove modalità di lavoro, la protezione dei dispositivi continua a essere un elemento cruciale e l’adozione di applicazioni e piattaforme Cloud rende necessaria una specifica attenzione a questo ambito. La dinamicità del mercato viene poi confermata sul lato offerta dalle 13 operazioni straordinarie di acquisizione, aggregazione e quotazione che hanno riguardato 24 realtà italiane di servizi e soluzioni in ambito security, per un giro d’affari pari a diverse centinaia di milioni di euro.

L’organizzazione della sicurezza informatica in azienda

Dopo anni in cui l’organizzazione della cybersecurity è stata pressoché cristallizzata, nel 2021 cresce di 5 punti la presenza formale del responsabile della sicurezza informatica. Il presidio è oggi affidato nel 46% delle imprese italiane al ChiefInformation Security Officer, che nella maggioranza dei casi riporta alla Direzione IT (34%) e ha un team dedicato a supporto nel 78% dei casi. Il 58% delle imprese poi ha definito un piano di formazione strutturato sulle tematiche di cybersecurity e data protection rivolto a tutti i dipendenti, mentre l’11% si è focalizzato sulla formazione di specifiche funzioni più a rischio. 

La gestione del rischio

Nel 30% dei casi sono state realizzate azioni di sensibilizzazione meno strutturate e sporadiche, mentre solo nell’1% non sono del tutto previste attività di formazione.
Il Covid-19 ha comunque lasciato uno strascico negativo nell’approccio al rischio cyber, aumentando la difficoltà nell’adottare una visione olistica e strategica.
Se il numero complessivo di aziende che lo affrontano rimane invariato (38%), diminuiscono dell’11% quelle che lo gestiscono in un processo integrato di risk management. Aumentano invece le organizzazioni che lo trattano come un rischio a sé stante all’interno di una singola funzione (49%).