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L’export in Lombardia supera 35 miliardi di euro nel secondo trimestre 2021

L’ incremento nelle attività delle imprese lombarde nel secondo trimestre del 2021 ha dato nuovo slancio agli scambi con l’estero, e il valore delle esportazioni originate dalla Lombardia supera per la prima volta i 35 miliardi di euro. A crescere sono anche le importazioni, che superano i 37 miliardi complessivi, con una riduzione del deficit commerciale pari a 2,7 miliardi di euro. La variazione dell’export lombardo sul primo trimestre dell’anno è pari a +12,9% e l’incremento rispetto allo stesso trimestre del 2020 tocca +46,7%, un valore eccezionale rispetto al minimo registrato l’anno scorso. E rispetto al livello medio del 2019, l’export cresce del +9,9%, un dato che conferma l’accelerazione congiunturale e il netto superamento dei livelli pre-crisi. Si tratta dei dati di Unioncamere Lombardia, ricavati dal rapporto sul commercio estero della regione nel secondo trimestre 2021.

Crescita a due cifre per le esportazioni di prodotti in metallo e metalli di base

Tra i comparti è quello legato ai metalli e le loro produzioni a trainare la ripresa, e di questa performance beneficiano la maggior parte delle provincie lombarde. Anche gli apparecchi elettrici ed elettronici, la chimica, gomma-plastica e il comparto alimentare crescono significativamente, mentre continua il momento difficile per il tessile, pelli e accessori (-5,2%), e gli articoli farmaceutici (-1,3%) I dati di Unioncamere confermano una crescita a due cifre per le esportazioni di prodotti in metallo e metalli di base (+25,2%), sostanze e prodotti chimici (+17,7%), gomma e materie plastiche (+15,7%), prodotti alimentari (+15,2%) e computer, apparecchi elettrici ed elettronici (+13,9%). Più contenuto l’incremento registrato per mezzi di trasporto (+8,8%), macchinari e apparecchi vari (+5,3%) e aggregato degli altri prodotti (+3,7%), principalmente mobili e arredamento.

Incrementi tendenziali consistenti per tutte le destinazioni

In generale l’andamento positivo viene confermato anche dal confronto con il livello pre-crisi, rispetto al quale si registra un incremento del 9,8% complessivo. Tutte le destinazioni registrano incrementi tendenziali consistenti, dal +36,7% dell’Unione Europea al +80,3% dell’America centro-meridionale. Considerando le singole aree si osservano alcune destinazioni che devono ancora completare la fase di recupero dei livelli pre-crisi, come Medio Oriente (-3,5%), Altri paesi africani (-5,8%) e Asia centrale (-12,0%).  Verso le restanti destinazioni la Lombardia riesce a incrementare il valore dell’export rispetto alla media 2019 grazie ai principali paesi di destinazione, tra cui Cina (+34,9%), Turchia (+25,7%), Regno Unito (+22%), Brasile (+16,3%), Germania (+13,4%) e Stati Uniti (+8,1%).

L’andamento delle province lombarde

L’incremento tendenziale interessa tutte le provincie lombarde. Rispetto alla media 2019 crescono, fortemente trainati da metalli di base e prodotti in metallo, Mantova (+29%), Cremona (+22,6%) Brescia (+21,9%). Seguono Sondrio (+15,2%) Monza e Brianza (+14,5%) Lecco (+13%) e Bergamo (+12,9%) Meno intensa la crescita delle provincie di Lodi (+9,9%), Varese (+6,8%), Como (+3,7%) e Milano (+2,2%). Pavia invece non ha ancora recuperato il divario rispetto ai livelli pre-crisi (-7,4%).

Famiglie, migliorano le attese su economia e lavoro

Secondo la quinta edizione dell’indagine straordinaria sulle famiglie italiane condotta dalla Banca d’Italia, le attese delle famiglie sulla situazione economica generale del Paese e sul mercato del lavoro sono migliorate. Rispetto alla rilevazione condotta da Bankitalia tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2021, il saldo delle risposte relative alle prospettive generali dell’Italia, pur restando negativo, ora risulta fortemente aumentato. Di fatto, la percentuale di famiglie che si attende un peggioramento del quadro generale nei successivi dodici mesi è diminuita di 8 punti percentuali, portandosi a quota 38%. Si tratta del valore più basso dall’avvio della rilevazione, avvenuto nella primavera del 2020, quindi in piena crisi pandemica.

Il 70% dei nuclei si attende un reddito in linea con quello percepito nel 2020

Sempre secondo la quinta edizione della rilevazione della Banca d’Italia, anche le aspettative sul mercato del lavoro nei successivi dodici mesi ora sono divenute più favorevoli. Le attese sulla situazione economica familiare invece sono rimaste sostanzialmente invariate rispetto a inizio anno. Oltre il 70% dei nuclei familiari italiani per il 2021 si attende un reddito in linea con quello percepito nel 2020, mentre circa un sesto dei nuclei ritiene che entro la fine del 2021 sarà inferiore. E se i nuclei con capofamiglia lavoratore autonomo o disoccupato continuano a essere più pessimisti rispetto a quelli con capofamiglia dipendente e pensionato, il divario si sta attenuando.

Più un quinto delle famiglie ha beneficiato delle misure di sostegno

Così come nella precedente edizione dell’indagine, poi, il 30% delle famiglie italiane dichiara di aver percepito nell’ultimo mese un reddito più basso rispetto a prima dello scoppio della pandemia. Il peggioramento delle condizioni reddituali però risulta ancora mitigato dalle misure governative di sostegno al reddito. Tra i mesi di marzo e aprile del 2021, secondo le rilevazioni di Bankitalia, ne avrebbe beneficiato poco più di un quinto dei nuclei familiari.

Ma c’è anche chi ha riportato una riduzione del reddito

Un ulteriore dato che emerge dall’indagine, riporta Italpress,  è come la maggior parte delle famiglie italiane ritenga che il valore delle proprie attività finanziarie nel 2020 sia rimasto stabile. Un terzo delle famiglie, invece, sostiene che sia diminuito, una quota che raggiunge il 40% tra i nuclei il cui capofamiglia è occupato nei settori maggiormente colpiti dalla pandemia, come ristorazione, turismo, commercio al dettaglio, e che addirittura raddoppia tra coloro che hanno riportato una riduzione del reddito rispetto a prima dell’emergenza sanitaria.

Micro imprese, previste assunzioni nei prossimi 6 mesi

Nei prossimi sei mesi più della metà delle micro imprese italiane ha intenzione di assumere personale. Un contributo alla crescita dell’occupazione, quindi, se ciò non risultasse frenato dalle difficoltà, e in molti casi dalla impossibilità, di reperire le figure professionali necessarie. A rilevarlo è una indagine condotta dalla CNA su un campione di oltre 2 mila aziende, rappresentative del tessuto imprenditoriale nazionale, composto per più del 90% da imprese con meno di dieci addetti. Più in dettaglio, il 55,1% delle imprese che hanno partecipato all’indagine vorrebbe realizzare assunzioni entro gennaio 2022. Di queste, il 52,7% ipotizza nel periodo in esame una assunzione, il 33,8% ne prevede due, e l’8,2% tre.

Due nuovi lavoratori su tre saranno reclutati mediante contratti ‘stabili’ 

Assunzioni che non sono destinate a fare fronte a un aumento meramente transitorio della domanda. Quasi due nuovi lavoratori su tre, infatti, sarebbero reclutati mediante contratti ‘stabili’. In particolare, il 29,4% con contratto a tempo indeterminato, il 20,2% di apprendistato, e il 14,8% tramite tirocinio formativo. Il 27,7% delle imprese invece punta su contratti a tempo determinato, un che rappresenta la formula giuridica ideale a soddisfare la flessibilità richiesta alle imprese più piccole. Marginale risulta invece il ricorso alle collaborazioni professionali (4,1%) e al lavoro occasionale (3,8%).

Il 79,9% delle imprese non trova candidati idonei

La volontà delle imprese, e in particolare delle imprese artigiane, micro e piccole, di ampliare l’organico in funzione delle nuove necessità richieste dal mercato nel dopo pandemia, rischia però di essere frustrata dalla difficoltà, spesso insormontabile, di reperire le figure professionali. Solo il 12,9% delle imprese che stanno assumendo, o vorrebbero farlo, assicura di non avere avuto (e si dice convinto che non avrà) problemi a selezionare candidati dotati delle competenze richieste disposti ad accettare l’offerta. Al contrario, la grande maggioranza del campione denuncia difficoltà. Il 79,9% delle imprese, infatti, non riesce a trovare candidati idonei alle mansioni richieste. E il rimanente 7,2% si imbatte in candidati insoddisfatti delle offerte economiche avanzate dalle imprese, riporta Italpress.

L’Italia non ha un sistema in grado di coniugare domanda e offerta di lavoro

Sotto questo aspetto, dall’indagine CNA emerge un quadro “inquietante anche se non nuovo: il nostro Paese non ha un sistema in grado di coniugare domanda e offerta di lavoro – sottolinea l’associazione -. Tanto che il 41,1% delle imprese ammette di cercare il personale prevalentemente tramite il cosiddetto passaparola. Una quota quasi doppia rispetto a quella delle imprese che si rivolgono alle agenzie interinali e di ricerca o selezione del personale, che si ferma al 21,5%. Il 16,6% del campione – continua la CNA – si indirizza a scuole o a istituti di formazione, l’11% si affida ai mezzi di comunicazione specializzati e appena il 3,8% ricorre ai centri per l’impiego. A riprova del fatto che il canale pubblico riesce solo per una esigua parte a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”.

Risorse naturali scarse: tassare le aziende che le utilizzano? 

Cosa pensano i cittadini in merito all’utilizzo di risorse naturali scarse per la produzione e realizzazione di prodotti? La risposta arriva dal nuovo sondaggio di Ipsos, condotto in collaborazione con il World Economic Forum, che ha raccolto e analizzato le opinioni dei cittadini in merito allo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle aziende. Il sondaggio è stato condotto tra il 21 maggio e il 4 giugno 2021 su 19.510 adulti in 28 Paesi del mondo attraverso un questionario online. Innanzitutto, dal sondaggio emerge che il 71% pensa che le aziende che usano tali risorse dovrebbero pagare tasse aggiuntive, e l’85% degli intervistati ritiene che le informazioni relative all’utilizzo di risorse naturali scarse dovrebbero essere incluse nelle etichette dei prodotti. 

Cina, India, Colombia, Cile sono più d’accordo ad aumentare le tasse

Il sondaggio Ipsos rivela che a livello internazionale il 71% degli intervistati ritiene che le aziende che usano risorse naturali scarse per la realizzazione dei propri prodotti dovrebbero pagare tasse aggiuntive per il loro uso, anche se ciò significherebbe aumentare significativamente il prezzo finale dei prodotti.  Tra i 28 Paesi esaminati, una tassazione maggiore per le aziende che utilizzano risorse naturali scarse è maggiormente condivisa in Cina (85%), India e Colombia (84%) e Cile (83%), e meno condivisa in Giappone (47%), Polonia (50%) e Stati Uniti (60%) e Ungheria (64%). In Italia, la percentuale di intervistati d’accordo con una maggior tassazione per l’utilizzo di risorse naturali scarse al fine di produrre e realizzare prodotti, pari al 73%, si avvicina alla media internazionale. 

Serve un’etichettatura adeguata dei prodotti

Quanto all’etichettatura dei beni che utilizzano risorse naturali scarse per la loro produzione il sondaggio Ipsos rivela che a livello internazionale l’85% degli intervistati ritiene che le informazioni relative all’utilizzo di risorse naturali scarse dovrebbero essere incluse sulle etichette dei prodotti. Tra i 28 Paesi esaminati, un’etichettatura dei prodotti appropriata sulle merci è maggiormente condivisa in Colombia (93%), Malesia, Cina e Cile (91%) e meno condivisa in Giappone (75%), Germania e Stati Uniti (76%). 
Anche in questo caso, la percentuale degli intervistati italiani d’accordo con l’inserimento delle informazioni relative all’utilizzo di risorse naturali scarse nelle etichette dei prodotti, si avvicina alla media internazionale, con l’83% di opinioni positive. 

La soluzione è l’economia circolare

Dai dati Ipsos la necessità di ridurre il consumo e lo spreco sembra quindi essere ampiamente riconosciuta. Ma come procedere? Secondo il World Economic Forum una strategia chiave per ridurre i consumi e proteggere le risorse naturali è quella di allontanarsi dal nostro attuale approccio ai consumi, basato su “prendere-produrre-eliminare”, verso un’economia più circolare. I sostenitori dell’economia circolare propongono alcune modalità alternative di produzione, che potrebbero aiutare ad affrontare i problemi di sovraconsumo e scarsità delle risorse. In particolare, i prodotti dovrebbero essere progettati per sfruttare meno risorse e produrre meno rifiuti, i materiali usati per produrre i beni dovrebbero essere riutilizzati, e le risorse naturali dovrebbero essere protette e rimpiazzate.

Smart working, non solo vantaggi: il prezzo del lavoro da remoto

Comodo, efficace, utilissimo quando non si poteva fare che così: ma lo smartworking, fra tutti i i suoi aspetti positivi (è stato un “salvavita” nei periodi duri del lockdown) adesso presenta il conto. E non tutti gli italiani lo amano: sebbene il bilancio sia positivo sul fronte dell’aumentata possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro, ci sono anche diverse zone d’ombra che possono avere effetti anche sul clima aziendale e sulle relazioni di lavoro, fino ad arrivare alla disaffezione. Lo rivela il capitolo “Smart working, una rivoluzione nel lavoro degli italiani”, contenuto nel Rapporto “Gli italiani e il lavoro dopo la grande emergenza”.

A casa è meglio sì o no?

Ecco qualche dato emerso dalle ricerca: il 16,7% dei lavoratori intervistati guarda allo smart working come un punto di non ritorno della propria vita professionale; oltre il 10,7% cercherebbe un qualsiasi altro lavoro pur di svolgerlo da casa. Il 43,5% si adatterebbe al ritorno in ufficio, ma 4 su 10 sarebbero contenti di tornare a lavorare tutti i giorni in presenza. Quello che cambia, a livello di percepito, è determinato da diversi fattori, come il genere, l’età o la presenza o meno di figli a casa. In generale, sono gli uomini quelli che hanno più sofferto l’home working, sia sotto il profilo della carriera sia sotto quello delle relazioni (52,4% contro 45,7% delle donne), anche se ne hanno beneficiato in produttività e concentrazione. Le donne, invece, hanno patito l’allungamento dei tempi di lavoro (57% contro il 50,5% degli uomini) e l’inadeguatezza degli spazi casalinghi (42,1% contro 37,9%), evidenziando un maggior rischio di disaffezione verso il lavoro (44,3% rispetto al 37% dei colleghi).

Work-life balance… in bilico tra le quattro mura

Se in sei casi su dieci lo smart working ha consentito di conciliare meglio professione e vita privata, non è stato così per chi aveva maggiori carichi familiari. In primis le coppie, il cui work-life balance è peggiorato per il 43% del campione. Ma l’home working ha avuto anche ricadute pratiche, in termini di spesa e disturbi fisici legati a postazioni domestiche inadeguate. Il 71,1% dichiara di aver diminuito le spese per spostamenti, vitto e vestiario, investendo in consumi legati al tempo libero nel 54,7% dei casi, ma il 48,3% paga il conto per l’utilizzo di sedie e scrivanie improvvisate e il 39,6% lamenta l’inadeguatezza degli spazi e delle infrastrutture, come i collegamenti di rete.

Le tariffe al tempo del Covid

A un anno dall’inizio della pandemia sono cambiate le tariffe delle principali spese familiari? La risposta arriva da Facile.it, che ha confrontato i costi delle tariffe di Rc auto, mutui, prestiti, bollette, conti correnti, telefonia mobile e internet tra gennaio 2020 e oggi.  Per i mutui, ad esempio, Facile.it registra un calo dei tassi, che vedono gli indici mediamente inferiori rispetto a quelli rilevati prima del Covid. Il tasso fisso però a marzo 2021 è tornato a crescere, mentre risulta più stabile l’andamento del tasso variabile, ancora oggi fermo su livelli minimi. Torna quindi ad allargarsi la forbice tra tassi fissi e variabili, che negli ultimi anni si era ridotta ai minimi.

Rc Auto e bollette di luce e gas

Il lockdown ha determinato una contrazione delle tariffe assicurative. I premi medi sono rimasti su livelli molto bassi per tutto l’anno e ancora oggi le condizioni sono estremamente favorevoli. Secondo l’osservatorio Rc auto di Facile.it, il premio medio rilevato a febbraio 2021 era inferiore del 13,5% rispetto a quello di febbraio 2020. Come per i mutui, però, la curva sembra aver iniziato una inversione di tendenza, tanto che da gennaio a febbraio 2021 è stato rilevato un rincaro dell’1,44%. Stesso andamento per le tariffe luce e gas. Se nel primo semestre 2020 l’arrivo del Covid ha determinato un calo del costo dell’energia, a partire dall’ultimo trimestre dell’anno i prezzi sono tornati a salire, e oggi le tariffe medie sono addirittura superiori rispetto a quelle rilevate prima dell’inizio della pandemia.

Prestiti personali, telefonia mobile e fissa, e internet

Andamento opposto per i prestiti personali: il Covid-19 ha avuto un impatto estremamente negativo sul settore. Nella prima metà del 2020 questo ha portato a un atteggiamento di maggior cautela da parte delle società di credito, che si è tradotto nell’aumento dei tassi di interesse e l’irrigidimento dei criteri di valutazione dei richiedenti. Notizie in chiaroscuro arrivano invece dal mondo della telefonia. Sul fronte mobile non sono state rilevate grandi variazioni, con l’importo medio stabile a circa 13 euro al mese. Quanto a internet, Facile.it evidenzia un aumento dei prezzi offerti a chi vuole cambiare operatore o attivare una nuova linea, per un rincaro del 5,3%.

Conti correnti sempre meno gratuiti

L’offerta bancaria è estremamente ampia, ma se da una parte continuano a esistere i cosiddetti conti a zero spese, alcuni istituti hanno cominciato a richiedere un canone fisso. Quello che risulta evidente è che gli istituti provino a disincentivare i prelievi di contante e favorire i pagamenti con carta, soprattutto tramite promozioni che si basano sui meccanismi di cashback. Lo scenario dei conti italiani vede quindi oggi alcune tipologie emergenti: pochi conti gratuiti con prelievi a pagamento o pochi prelievi inclusi, conti più tradizionali con alti costi di mantenimento, o con canoni annui bassi, ma con altre funzionalità gratuite, e conti che prevedono l’azzeramento del canone a patto che diventino veicolo di pagamento di utenze, accredito stipendio e via dicendo.

Effetti collaterali dello smart working: sedentarietà forzata e mal di schiena

La sedentarietà forzata è diventata lo stile di vita della quarantena, e in questo anno di lavoro da remoto, sensazioni di nausea, vertigini, stress accumulato e nervosismo sono sintomi piuttosto frequenti fra gli smart worker. Sintomi che vengono causati dal mal di schiena, una problematica in forte aumento in questi mesi. Secondo un’indagine pubblicata sull’International Journal of Environmental Research and Public Health, la prevalenza puntuale di casi di mal di schiena è passata dal 38,8% del pre quarantena al 43,8% dopo il lockdown, con una crescita totale dei casi dell’11%.

La percentuale di chi non pratica attività fisica è aumentata del 173,97%

Le persone più colpite sono state quelle di età compresa tra i 35 e i 49 anni, che avevano un indice di massa corporea uguale o superiore al 30, che erano sottoposti ad alti livelli di stress e che erano soggetti a una sedentarietà prolungata, non praticando attività fisica. Ma la schiena non è stata l’unica parte del corpo interessata: le persone hanno riscontrato sempre più frequentemente anche problemi al collo (+17,44%), alle spalle (+25,41%), al torace (+74,44%) e alle gambe (+40,40%). E ancora, la percentuale di persone che non hanno praticato attività fisica è aumentata addirittura del 173,97%, passando dal 7,3% al 20%. A riportare maggior dolore durante il periodo di quarantena sono state le donne, (2,46 su un massimo di 5 proposto dal questionario), mentre gli uomini si sono fermati a 2,39, riporta Ansa.

La prevenzione inizia a tavola

Ma quali sono i consigli degli esperti per prevenire e curare il mal di schiena? La prevenzione parte senza dubbio a tavola con un’alimentazione sana, ricca di fibra e verdure. Evitare il sovrappeso, infatti, rappresenta la condizione principale per non contrarre problemi ben più gravi alla colonna vertebrale. Si devono poi eseguire esercizi di stretching e rafforzamento muscolare per migliorare la flessibilità della schiena. Bastano infatti 15 minuti al giorno di semplici esercizi di stiramento muscolare per migliorare la flessibilità della colonna vertebrale e prevenire qualsiasi problema.

Evitare l’effetto ‘tech neck’

Per chi lavora in smart working è fondamentale però anche sedersi nel modo più corretto possibile, e fare pause di 20 minuti evitando l’effetto ‘tech neck’. Assumere una postura corretta quindi è fondamentale, ma soprattutto stop al fumo. Fumare ostacola la circolazione sanguigna dei dischi spinali e rende più frequente la possibilità di contrarre dolori alla schiena. Oltre a rafforzare la muscolatura con esercizi mirati, sarebbe bene mantenere una routine priva di stress, e dormire in maniera corretta, perché la qualità del sonno influisce notevolmente sulla condizione lombare. Dormire quindi in posizione supina, meglio se con un cuscino tra le gambe, che aiuta a combattere spasmi muscolari

In Italia si lavora di più, ma si guadagna meno

Per i lavoratori italiani il salario lordo medio si colloca a livelli inferiori rispetto alla media degli altri Paesi dell’Eurozona. L’Italia ha infatti un alto numero medio di ore lavorate all’anno per dipendente, e allo stesso tempo la minor quota salari in percentuale del Pil. Insomma, in Italia si lavora di più, ma si viene retribuiti molto meno. Il confronto tra le sei maggiori economie dell’Eurozona mette poi in evidenza tre dinamiche salariali differenti: Paesi Bassi e Belgio, in presenza di salari medi più alti, registrano una crescita costante, Germania e Francia, con salari medi a livello intermedio tra i sei Paesi, registrano l’incremento salariale più alto, mentre Italia e Spagna, con i salari medi più bassi, si caratterizzano per una stagnazione di lungo periodo.

L’Italia è l’unica a non avere ancora recuperato il livello salariale pre-crisi 2007

Dai dati Cgil contenuti in una ricerca della Fondazione Di Vittorio sulla questione salariale in Italia risulta che nella comparazione tra l’Italia e la Germania, dopo un decennio di sostanziale stagnazione (2000-2009), i salari mostrano dinamiche divergenti, pur in presenza di tassi di inflazione ai minimi storici. Infatti, nel periodo successivo (2010-2019) i salari tedeschi sono cresciuti di +5.430 euro (+14,7%) mentre quelli italiani sono diminuiti di -596 euro (-1,9%). Inoltre, l’Italia è l’unico tra i sei Paesi dell’Eurozona che non ha ancora recuperato il livello salariale pre-crisi (2007), e che ha avuto complessivamente le oscillazioni più contenute.

Il confronto con i 6 Paesi europei

In Italia, poi, il salario di un single al 100% del salario medio (21,6mila euro) ha uno scarto che va da oltre 15,7mila euro con i Paesi Bassi a quasi 5mila con la Francia. Nel caso del monogenitore al 67% del salario medio con due figli, il salario netto in Italia (20,6mila euro) ha invece uno scarto che va da oltre 16,7mila euro con i Paesi Bassi a 5,8mila con la Francia, mentre è superiore a quello spagnolo di oltre 2,6mila euro. Nel caso italiano della coppia bireddito con entrambi i genitori al 100% del salario medio e due figli (45,2mila euro), lo scarto è ancora maggiore: da 34,5mila con i Paesi Bassi a 10,8mila con la Francia.

Sui salari lordi italiani si esercita una maggiore pressione fiscale

Dall’analisi emerge poi come l’Italia nel 2019 abbia registrato il maggiore cuneo fiscale (39,2%) proprio per la coppia monoreddito con due figli e un salario equivalente a quello medio (Ocse, 2020). Come precisa Askanews, questo mette in evidenza come sui salari lordi italiani, già mediamente più bassi degli altri, si eserciti complessivamente una maggiore pressione fiscale.

Superbonus, la cessione del credito parte dal 15 ottobre

Lo comunica l’Agenzia delle entrate, la cessione del credito sul superbonus al 110% potrà essere utilizzata dal prossimo 15 ottobre usando il modello approvato esclusivamente in via telematica. La comunicazione per fruire dello sconto sul corrispettivo, o della cessione del credito, potrà essere inviata all’Agenzia a partire dal 15 ottobre 2020 ed entro il 16 marzo dell’anno successivo a quello in cui si sostiene la spesa. Secondo i chiarimenti interpretativi contenuti nella circolare dell’Agenzia delle Entrate sull’incentivo introdotto con il dl Rilancio anche i familiari e i conviventi del possessore o detentore dell’immobile che sostiene la spesa per i lavori effettuati possono accedere al Superbonus.

Possono accedere alle agevolazioni anche familiari e conviventi

Al Superbonus del 110% possono accedere dunque anche i familiari e i conviventi di fatto del possessore o del detentore dell’immobile, sempre che siano loro a sostenere le spese per i lavori. La circolare specifica che tali soggetti possono usufruirne se sono conviventi alla data di inizio dei lavori o, se antecedente, al momento del sostenimento delle spese. Possono accedere agli incentivi anche imprenditori e autonomi sulle unità immobiliari all’interno di condomini per i lavori sulle parti comuni. Rientrano poi nel plafond di agevolazioni i costi per i materiali, la progettazione e le spese professionali connesse.

L’incentivo vale anche per le seconde case

L’incentivo vale anche per gli interventi su un immobile diverso da quello destinato ad abitazione principale, nel quale può svolgersi la convivenza, mentre non spetta al familiare su immobili locati o concessi in comodato. Ha diritto alla detrazione, specifica l’Agenzia, anche il promissario acquirente dell’immobile oggetto di intervento immesso nel possesso, a condizione che sia stato stipulato un contratto preliminare di vendita dell’immobile regolarmente registrato. Per quanto riguarda le partite Iva e i condomini, via libera anche per le persone che svolgono attività di impresa o arti e professioni per i lavori sulle parti comuni degli edifici deliberate dalle assemblee condominiali.

Detrazione anche per alcune spese accessorie agli interventi

Se i lavori invece interessano singole unità immobiliari allora il bonus è riconosciuto limitatamente agli immobili estranei all’attività esercitata, appartenenti quindi solo alla sfera “privata” della vita dei contribuenti, riporta Ansa. La detrazione del 110% si allarga però fino a comprendere anche alcune spese accessorie agli interventi che beneficiano del Superbonus, purché effettivamente realizzati. Si tratta, ad esempio, dei costi per i materiali, la progettazione e le altre spese professionali connesse, come perizie e sopralluoghi, spese preliminari di progettazione e ispezione e prospezione.

Il futuro dopo il Covid-19 secondo gli italiani

“Immagina di svegliarti domani mattina e di scoprire che a fronte di nuovi dati sull’emergenza in corso è stato deciso di avviare una nuova fase, con cambiamenti e con l’introduzione di nuove norme. Prova a descrivere quello che succederà durante questa nuova fase, racconta nel dettaglio in che modo cambierà la quotidianità e cosa accadrà nel concreto rispetto alla fase attuale”.

Questa è la domanda posta dall’osservatorio settimanale di BVA Doxa, iniziato il 20 marzo, sulle previsioni degli italiani all’epoca del Coronavirus.

L’immaginario che emerge dalla nuova analisi sembra mutato rispetto alla precedente rilevazione. Ora le prospettive future sono meno estreme, e gli italiani iniziano a riflettere su quanto dovrà rimanere dell’esperienza vissuta durante l’emergenza Covid, e sulle sue conseguenze.

Il 33% si aspetta un nuovo lockdown

L’indagine rileva due macro tendenze nel prefigurare il futuro. Da una parte (65%) ci si concentra sull’evoluzione dell’emergenza, prefigurando il ritorno al lockdown o il miglioramento generale della situazione. Dall’altra (35%) l’attenzione è rivolta a quanto rimarrà in futuro di ciò che è stato provato e vissuto in questi mesi straordinari. Inoltre, il 65% degli italiani che si interrogano sulla prossima evoluzione dell’emergenza può essere ulteriormente suddiviso in due cluster. Il primo (33%), denominato Back to lockdown, riunisce chi crede che il virus potrebbe tornare a diffondersi, obbligando a un nuovo lockdown. Ma rispetto alla precedente rilevazione anche le prefigurazioni sull’evoluzione negativa dell’emergenza sono meno estreme. A maggio, infatti, prevaleva l’idea che qualora la situazione fosse peggiorata si sarebbero rese necessarie misure restrittive ancora più severe.

Per il 32% via le mascherine, ma rimarrà il distanziamento

Nel secondo cluster “Mask off, life on” (32%), ci si concentra su una risoluzione positiva dell’emergenza, con descrizioni di scenari che si focalizzano sull’abbandono di alcuni obblighi. Tuttavia, a differenza di quanto osservato nella wave precedente, queste prefigurazioni positive non arrivano a descrivere una soluzione definitiva in cui la vita tornerà totalmente come quella pre-Covid. Le opinioni al riguardo, infatti, sono più moderate: si toglierà la mascherina, ma nel ritorno alla vita di tutti i giorni si continuerà a mantenere sempre la distanza dagli altri.

Vita più digitale, ma senza arrendersi

Si suddivide in due cluster anche il restante 35% che rende un’interpretazione della normalità che raccoglie l’eredità di questi mesi di emergenza. Il primo gruppo (20%), denominato Digitalizing Life, descrive il futuro post Covid-19 prefigurando che lo smart working sarà il primo passo per una ripartenza verso una nuova normalità, con la speranza che porti a un equilibrio migliore tra vita lavorativa e vita personale. Il restante 15%, che compone il cluster No surrender, crede che l’eredità del Covid va rintracciata soprattutto nell’umore e nell’attitudine delle persone. L’idea è quella che ci sarà comunque la voglia di non farsi trovare impreparati, e di essere diventati capaci di affrontare il cambiamento senza farsi abbattere.